Acque sotterranee: un tesoro nascosto da tutelare. Numerose le regioni italiane dipendenti da queste riserve idriche per uso potabile. Italia paese a stress idrico medio-alto.

Legambiente presenta la road map con le tre priorità per una loro gestione condivisa e sostenibile e quattro vertenze storiche dell’associazione che raccontano la necessità di agire.

>> Il dossier

Invisibile ai nostri occhi eppure fondamentale per la vita e gli equilibri sulla terra: parliamo dell’acqua sotterranea, o anche detta acqua di falda, la più grande riserva idrica del pianeta ma anche una delle risorse più dimenticate, quest’anno protagonista della Giornata mondiale dell’acqua 2022 (World Water Day). In questa occasione Legambiente presenta un dossier, lanciando una road map con 3 proposte per tutelare e preservare questi importanti corpi idrici, troppo spesso maltrattati e sovra sfruttati, la cui qualità e quantità è sempre più messa a rischio dall’urbanizzazione, dalla crescita demografica, dall’inquinamento e dai cambiamenti climatici. Il raggiungimento degli obiettivi stabiliti dalla Direttiva Quadro Acque (2000/60), che prevedono il conseguimento di un buono stato (qualitativo e quantitativo) dei corpi idrici, la corretta pianificazione degli usi dell’acqua per prevenire il loro deterioramento (qualitativo e quantitativo) e la messa al bando nella produzione e nella commercializzazione di alcune sostanze inquinanti, persistenti e bioaccumulabili, dannose per l’ambiente e la salute: queste le azioni concrete secondo il cigno verde, che coincidono con gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG6) delle Nazioni Unite di una gestione condivisa e sostenibile delle falde, allo scopo di garantire universalmente l’accesso ad acqua pulita e potabile. Ma soprattutto non rinviabili se si pensa che – secondo dati ISPRA – in Italia, nel 2018, sono stati prelevati più di 9,2 miliardi di metri cubi di acqua per uso potabile, di cui in media circa l’85% deriva dalle acque di falda; e alcune Regioni, come Umbria e Valle d’Aosta, ne dipendono totalmente (il 100% delle acque prelevate sono infatti sotterranee).

Rispetto ai rischi di scarsa qualità dell’acqua per l’impatto delle attività umane, 4 i casi simbolo di inquinamento di falde in Italia raccontate (in Veneto, nella provincia di Alessandria, nella Val Basento in Basilicata e del profondo acquifero del Gran Sasso), per i quali la gravità della situazione è ben conosciuta e che, nonostante l’attivismo di associazioni e cittadini, continuano a rappresentare un pericolo per l’ambiente e per la salute delle persone.

Le 3 priorità di Legambiente

Primo passaggio fondamentale è il raggiungimento degli obiettivi stabiliti dalla Direttiva Quadro Acque (2000/60/CE) che impone agli Stati membri, entro il 2027 (limite prolungato, inizialmente 2015) il conseguimento del buono stato qualitativo e quantitativo dei corpi idrici. I dati ISPRA mostrano una situazione ancora di forte ritardo in Italia: da un punto di vista quantitativo, solo il 75% dei corpi idrici sotterranei risulta classificato e di questi solo il 61% risulta in uno stato chimico “buono”, il 14% “scarso” e ben il 25% ancora non classificato (261 corpi idrici sui 1052 totali). Simile lo stato qualitativo che vede l’83% delle acque sotterranee classificate, di cui il 58% è in stato “buono”, 25% scarso e 18% non ancora classificato. Seconda priorità è la necessaria pianificazione degli usi dell’acqua, per prevenire il deterioramento qualitativo e quantitativo dei corpi idrici: necessario un monitoraggio costante per riuscire ad avere una visione d’insieme sull’impatto che la “somma” delle singole attività di scarico, prelievo, rilascio genera sulla risorsa idrica di un territorio. Infine, la messa al bando nella produzione e nella commercializzazione di quelle sostanze inquinanti, persistenti e bioaccumulabili che stanno generando problemi di tipo ambientale e sanitario in alcune parti del Paese. Un caso emblematico è quello dei PFAS, le sostanze perfluoroalchiliche, che hanno contaminato alcune porzioni delle falde del Veneto e del Piemonte, ma che si stanno ritrovando anche in numerose parti d’Italia.

“Un tesoro nascosto sotto ai nostri piedi, a decine o centinaia di metri. — ha commentato Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente — L’acqua di falda dev’essere riconosciuta e protetta, non solo come riserva idrica rinnovabile, ma anche come portatrice di un forte valore ambientale. Le tre priorità che oggi presentiamo vogliono offrire una sorta di road map per arrivare alla gestione condivisa e sostenibile delle acque sotterranee, come auspicato dalle politiche comunitarie, rendendole sempre meno vulnerabili e soggette alle conseguenze del sovra sfruttamento, dei cambiamenti climatici e dell’inquinamento”.

Le acque di falda in Italia

Come risaputo il nostro è un Paese a stress idrico medio-alto. Secondo gli ultimi dati ISPRA, in Italia vengono consumati circa 26 miliardi di metri cubi di acqua all’anno: il 55%, è legato agli usi agricoli, il 27% a quelli industriali e circa il 18% per scopi civili. Relativamente al settore “scopi civili”, implicando acque di qualità elevata, nel 2018 sono stati prelevati più di 9,2 miliardi di metri cubi di acqua per uso potabile, di cui in media circa l’85% deriva dalle acque di falda. Le Regioni più “idrovore”, essendo le più popolose, sono rappresentate dalla Lombardia (1,42 miliardi di m3), Lazio (1,16 miliardi di m3) e Campania (0,93 miliardi di m3). Alcune Regioni, come Umbria e Valle D’Aosta, dipendono totalmente dalle acque di falda, ciò significa che il 100% delle acque prelevate sono sotterranee; altre ne dipendono in maniera comunque significativa: 7 Regioni superano il 90% di dipendenza dalle loro acque sotterranee (Lazio, Trentino-Alto Adige, Campania, Lombardia, Abruzzo, Friuli-Venezia Giulia e Veneto) e 5 Regioni ne dipendono per più dell’80% (Piemonte, Calabria, Molise, Marche e Sicilia).

I pericoli e i quattro casi simbolo

Due i principali problemi citati nel dossier: il sovrasfruttamento delle falde, con conseguente riduzione, abbassamento e intrusione salina e l’inquinamento delle falde, dovuto a scarichi o sversamenti che raggiungono anche le acque sotterranee. Le riserve di acqua presenti nel sottosuolo sono per natura rinnovabili e di buona qualità, ma hanno tempi di ricarica molto lunghi e risultano essere sempre di più sotto pressione a causa delle attività antropiche. Una significativa parte delle acque sotterranee è interessata, in misura variabile, da inquinamento attribuibile a metalli pesanti, inquinanti organici persistenti, sostanze nutritive e da un’ampissima varietà di sostanze chimiche potenzialmente tossiche. Legambiente, a tal proposito, cita 4 vertenze storiche dell’associazione, simbolo di falde inquinate in Italia: la contaminazione da PFAS (sostanze perfluoro alchiliche riconosciute come interferenti endocrini e causa di numerose patologie) nelle acque di diversi territori del Veneto, dove le concentrazioni più elevate di contaminanti sono riferibili al depuratore di Trissino e, in particolare, alla società Miteni che è responsabile della produzione di composti contenenti fluoro principalmente per l’industria conciaria, tessile e farmaceutica; grazie all’impegno di associazioni, cittadini ed attivisti si è finalmente arrivati ad uno storico processo penale, iniziato a luglio 2021 che vede coinvolti quali responsabili civili anche la multinazionale Mitsubishi e il fondo lussemburghese ICIG proprietario del sito Miteni, mentre ancora proseguono le operazioni di messa in sicurezza del sito. Altro caso di contaminazione da PFAS (in particolare cC604) in provincia di Alessandria, ad opera della società Solvay. Un caso paradossale se si pensa che, nonostante la presenza di questo inquinante sia accertata fino al Po e nella falda esterna dello stabilimento, la società ha chiesto e ottenuto dalla provincia di Alessandria l’estensione dell’AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) per l’uso e la produzione di cC6O4. Attualmente, è perciò autorizzata a produrre 60 tonnellate/anno di cC6O4 e a scaricarne nel fiume Bormida fino a 940 Kg/anno. E ancora il caso della Val Basento, in Basilicata: in cui sono risultati presenti nel suolo e nelle acque di falda metalli pesanti, IPA, solventi clorurati e composti aromatici, derivanti dagli scarichi degli stabilimenti ANIC/Enichem e Materit. Infine, quello del profondo acquifero del Gran Sasso, che fornisce acqua a 700.000 abruzzesi nelle province di Teramo, L’Aquila e Pescara: contaminato di sostanze quali cloroformio e diclorometano a causa dei Laboratori nazionali dell’Istituto di Fisica Nucleare e dal traforo dell’A2, e per cui ancora non si sono attuate azioni risolutive, nonostante le pressioni dai vari enti ed associazioni ambientaliste.

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